31 agosto 2017

TRA LE FIAMME. IL RACCONTO DI CHI HA RISCHIATO LA VITA

di Antonino Lomonaco (nella foto)
Quel giorno prendemmo servizio alle tredici e trenta. Vi era una temperatura ambientale di quarantacinque gradi. Subito fummo mandati su di un grosso incendio che si inerpicava sui fianchi nord dell'Etna, nel territorio di Castiglione. Quando arrivammo, l'incendio aveva da poco oltrepassato la strada denominata "Quota mille". Vi era un vento apparentemente costante, verso ovest, poco forte e regolare, che lo spingeva verso il terreno bruciato di un precedente incendio. Bastava riuscire a gestire con l’acqua il fianco est e la testa dell’incendio, in modo da non far sfuggire, soprattutto quest’ultima, da quella direzione presa, per riportare tutto ad una condizione favorevole. Scorgemmo una stradina che s'inerpicava, distanziata una trentina di metri, a est dell' incendio, e su cui, pensammo, si potesse salire con un mezzo ad acqua per intervenire poi con le manichette. Io ed il mio compagno di squadra ci inerpicammo per visionare la strada, dovevamo accertarci che fosse percorribile e, soprattutto, che si potesse, all'occorrenza, invertire agevolmente la direzione di marcia. Ci eravamo distanziati solo qualche decina di metri dagli altri, quando ci accorgemmo di una repentina, quanto inaspettata, fiammata alle nostre spalle, spinta da un vento improvviso e contrario a quello che vi era stato sino ad allora. Una fiammata dovuta, forse, a qualche improbabile favilla o ad un innesco nascosto che si era attivato proprio in quel momento. Fatto sta che la fiammata si allargò con un vigore inusuale ed inaudito, attraversando, da est ad ovest la stradina che stavamo percorrendo in salita, tagliandoci la strada e ponendoci in un serio, e del tutto inatteso, pericolo con un incendio al di sotto di noi. Proprio in quel momento ci trovavamo in uno slargo della stradina, dovuto all'entrata e all'uscita di una proprietà abbandonata da qualche anno, una proprietà coltivata ad ulivi. In quel momento stavo proprio guardando le piante alte pochi metri lasciate all'incuria e rinsecchite, il terreno pieno di sterpaglie e foglie secche, il cancello di filo spinato che saliva, poi, a percorrere il perimetro della proprietà, la quale era invasa, ed ormai circondata, dai fitti ed alti cespugli di ginestre che predominavano quell'area rinselvatichita. Il mio compagno capì l'estremo pericolo che stavamo correndo e mi gridò di scavalcare il filo spinato per cercare riparo, ed una via di fuga, in quell'uliveto. Mi sembrò, istintivamente, l'ultima cosa da fare: vi era un rischio di rimanere impigliati col filo spinato mentre il fuoco andava proprio in quella direzione ed, in quella proprietà, non si scorgevano stradine o altre vie di uscita. Era un azzardo potenzialmente letale. Valutai, invece, che lo slargo in cui ci trovavamo poteva essere un sufficiente riparo, almeno finchè si attenuasse l'impeto di quelle prime fiammate, cosicchè, al momento opportuno, slanciarci di corsa per la stradina, adesso invasa dalle fiamme ma da cui eravamo venuti. Cercai di calmarlo ma già si era inerpicato sul filo spinato, scavalcandolo, e scomparendo alla mia vista. Temetti per lui. Ciononostante, appena mi rigirai a guardare l'evoluzione delle fiamme capii che dovevo temere anche per me! Solitamente, quando le temperature sono più fresche, a quelle prime fiammate furiose, vi è una certa dispersione di calore che attenua un po' l'impeto delle fiamme. Evidentemente, i quarantacinque gradi di quella giornata non aiutavano affatto la dispersione del calore che mi aspettavo, ma anzi lo concentravano e lo accentuavano. Così l'impeto delle fiamme continuava e se qualche istante prima andava da ovest verso est, adesso si stava concentrando in direzione nord-sud, ovvero proprio verso di me! Vi fu una ulteriore fiammata che mi fece capire di abbassare immediatamente la visiera del casco, vidi l'aria attorno a me diventare incandescente. Ebbi chiara consapevolezza di trovarmi in una condizione analoga ai miei sfortunati compagni nel "93. Proprio in quel momento vidi formarsi, alla mia sinistra, a pochi metri da me un mulinello di fuoco, alto tre, quattro metri, girare vorticosamente come una trottola incandescente e pazza. Ogni cosa iniziava a prender fuoco. Per qualche secondo rimasi affascinato da quel fenomeno straordinario, ma incominciai a sentire dolore per il forte calore. Non serviva nient’altro a farmi capire che dovevo scattare immediatamente in una corsa non più rimandabile verso la stradina ancora invasa dalle fiamme, ma oltre cui vi era la salvezza! Nella corsa fra le fiamme ricordo il dolore ai gomiti, al collo e alle punte delle orecchie, un dolore che avrebbe voluto sfogarsi in movimenti inconsulti come ad allontanare i morsi di bestie feroci che mi laceravano le carni. Eppure sentii anche le gambe, libere, vigorose, che balzavano regolari verso il basso, verso la salvezza. Pensai: Si può fare! Ce la faccio! Non ha importanza il dolore! 

D'un tratto, in quel tempo senza tempo, in cui muove l'emozione dell'emergenza, il rosso dell'aria si tramutò in fumo denso, sentì quel calore spaventoso diminuire, le bestie lasciare la presa delle carni. Rividi le figure dei miei compagni, le loro grida di bestemmie e contentezza nel rivedermi. Mi chiesero di Peppe. Già! Peppe!... Il mio ottimismo mi fece ricordare di non aver sentito strazii, lo chiamai fiducioso, lo chiamammo, gridammo... Rispose incolume. Fortunato come me: aveva trovato una via d’uscita! Eravamo vivi!

Vivi! Così come non lo è chi appicca un incendio, chi sporca il pianeta con la sua sporcizia esistenziale, chi vive per la morte: il danaro come fine, lo squallore come stile... 

Noi siamo di un’altra razza!


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